Bordoni Michele, esposizione “Haus am See"“ di Unterägeri - giugno 2009

“Un cromatismo magico“


In precedenza, si era posto l’accento sulla capacità di Michele Bordoni di organizzare la sua realtà in modo magico, ora, nella presente esposizione presso la Haus am See a Unterägeri-Zugo, si vuole accentuare di più il suo imprevedibile intervento sul reale con un cromatismo superlativamente magico. Il pittore ticinese, ma residente a Berna, ormai noto e addetto ai lavori, mostra una trentina di quadri, di grande e medio formato, tutti in acrilico, prodotti nel proprio atelier di Castel San Pietro (TI), che, tematicamente e diaristicamente, testimoniano le impressioni dei suoi spostamenti, dall’Ameriea (New-York - Cuba) all’Italia (Venezia), alla Svizzera (Berna - Biasca - Bellinzona - Lugano), i luoghi a lui affettivamente più vicini e più cari, ed inoltre la serie dei suoi interni e delle sue donne. 

Bordoni, imperterrito, continua a seguire la sua caratteristica scrittura, automaticamente mediata, con cipiglio audace e disinvolto, privilegiando, tra segno e forma, il colore o pellicolare o vetroso o asettico, come elemento protagonista della sua espressione. Ma, al di là del colore convulsamente mosaicato e delle tematiche, testo - pretesto, e un referenzialismo transitivo e diretto del reale, che non abbandona mai, ciò che sorprende la modalità, apparentemente nonchalance, con cui affronta ciò che vede. Egli non si preoccupa di impressionare, di dividere, di astrarre, di mentalizzare. Egli apre il suo grande occhio avido a fotografare, hic et nunc, oggettivamente ed impietosamente, quel momento, quel gesto, quel movimento, quella parete o quell’edificio per definirlo poi compiuto nella sua tela. Sembra, a prima vista, un’operazione così semplice, così naturale, se, nel passaggio tra il visivo e la realtà, il pittore restasse inerte. Ma, nell’esecuzione, se si considera solo il campo di esplorazione dell’effetto e l’immediata scelta, che Bordoni vuole ritagliare per la sua immagine, appaiono subito le implicazioni, che immediatamente scattano, o nel condizionamento citazionista o nel contesto gelosamente personale o nelle preferenze biopsichiche, che insieme interagiscono. Ecco che si addensa quella complessità, che va al di là dell’apparenza. Per esempio, come egli alza o abbassa la prospettiva, come altera i vari punti focali, spezzando l’unità canonica della finestra visiva, come ravvicina o allontana filmicamente le architetture o le masse geografiche, come sinteticamente spezza la compressa narrazione con improvvisi arresti, come dall’alto al basso precipita l’occhio o come staticizza meccanicamente in surrealtà disincantata l’evento quotidiano. Continuamente, nei suoi quadri, si trovano questi assalti, anche nelle variazioni stilistiche, dove questi voluti o spontanei accorgimenti, di volta in volta, esaltano le infinite potenzialità di pittore o nell’abbondanza o nella riduzione. Così, nel suo nomadismo inquieto, a New-York, annota, con immediata presa filmica e con sorprendente abilità tecnica, il flusso inevitabile del traffico notturno, e le “cabs at night“ tra le masse verticali delle alte architetture, in un cielo nerastro amorfo, e le insegne pubblicitarie fosforescenti in un pulviscolo frammentato e vibrato ed incredibile, nella narratività densa, il gioco di sintesi nell’allungamento del campo scelto, la captazione cromatica ben definita e misurata nelle variabilità tonali. Anche a Sal egli si sofferma solo su un edificio isolato e disabitato, alla Varlin, oblungo e rettangolare, dove solo il colore scolorato si ritira nella desolata architettura d’occasione, con la pretesa scritta di tudo un pouco e dove la strada vicina per caso e lo sfondo bluastro svuotano la costruzione con le porte e le finestre spalancate nell’ammasso di cemento abbandonato dal mondo. Quando Bordoni si porta a Venezia, nel “Sestiere di Castello”, ritorna all’abbondanza visiva, che la città addensata con i canali costringe, in particolare negli scorci affollati dei ritmi architettonici cosi scenicamente esposti e le impressionanti colorazioni caleidoscopiche, verde chiaro, blu scuro, che l’acqua riflette, in una loquacità frizzante. E, all’improvviso, egli, en vitesse, cambia ritmo e si arresta estatico nello scorcio di un “Palazzo gotico” diafano e immateriale, dilavato dal tempo, ai cui piedi ritmano palpitati i pali d’attracco segmentati di viola. E, quando torna in Ticino, contempla a Bellinzona l’oblungo “Castello merlato”, al crepuscolo, magicamente illuminato, tra un pendio nerastro e la massa dei monti innevati, in un cielo bluastro intensamente ed epidermicamente vibrato. O, a Biasca, dove eleva l’architettura romanica della “Chiesa di S. Pietro e Paolo”, immersa in un verdastro contorno, ad una visione quasi surreale, patinata di un colore petroso vitreo violaceo monotonale. O i “Denti della Vecchia”, sopra Lugano, che si alzano ocrati, ossuti, rocciosi e frastagliati contro un cielo tiepolesco perlaceo - rosato e un piano densamente e rigogliosamente verdastro, che lo esalta. O “Il lago di Lugano”, visto dall’alto e di notte, come un diamante immerso nell’ampia conca del golfo, tra neri trasparenti e luci calcinate biancastre, che inseguono sonnambule i contorni lontani del San Salvatore e delle colline digradanti. O addirittura, quando affronta la folla, nella Piazza Riforma di Lugano, per il “Risotto in piazza”, dove le persone minute sedute o in piedi sulle tavolate traversali, filmicamente sottolineate e variopinte tra luci e ombre portate, davanti alle imponenti architetture degli edifici, che le chiudono ed un cielo tersamente turchino e la punta verdastra del monte Brè. Una narratività impressionante ed una abilità tecnica superlativamente rara. E compie la stessa operazione a Berna, la capitale, questa volta con sottesa e distaccata ironia e con il titolo “Demo”, dove fotografa l’ammasso severo architettonico del Palazzo del Governo, monumentale, scheletrico ed amorfo, nel suo pallore vetroso bluastro, che sembra proteggere o schiacciare la massa dei cittadini di fronte, tutti radunati in pieno giorno, democraticamente anonimi, sotto ombrelli variopinti: come sempre, le troupeau è succube del potere, anche nella pomposa coreografia scenica dell’apparato istituzionalizzato. E, alla fine, si piega speculare, allago sopra Zugo, “Aegerisee”, nella fascinosa veduta liquida, in controluce ed in un parallelismo conturbante.

Ma, quando Bordoni passa dall’esterno all’interno o alla figura, l’abbondanza coniugata prima si riduce e si intimizza: l’ambiente e il colore assumono la cadenza del quotidiano e la dinamicità diventa staticità. Per esempio, la persona, isolata, non più della massa, come “Nicole”, la ballerina, sta seduta in un momento di pausa, con le gambe e le braccia incrociate, leggermente obliqua, nella svasata vaporosità del vestito latteo - bluastro e nella precisa plasticità anatomica disinvolta, dove viene bloccata dalla parete - quinta nerastra a fianco e dall’altra ocrata, in un apparente scambio dinamico - statico e nell’abbandono di un qualunque giorno. O “Fuffi e l’odalisca”, di manetiana memoria, dietro le spalle del sultano, che attende da sempre sul divano - sofà, variopinta e voluttuosamente passiva, tra coltri bluastre, geometricamente segmentate. O, lontano, a “Santiago” di Cuba, i due musicisti a metà busto, un trombettista ed un violinista, che aprono il flusso musicale frenetico dal basso all’alto verso l’edificio giallo patinato con i balconi bluastri alle loro spalle ed alla biancheria garrula, che freme con loro nelle verdi ombre portate. O la sola testa della ragazza “Asia”, che riempie il quadro tra anatomia scultorea e i colori complementari esibiti, fresca ed opulenta nella sua carnalità fluttuante. O, la danza all’aperto, “Rhytmic”, dove l’aria stessa arrotata segna visibilmente il movimento convulso delle membra delle persone presenti, rosso-violacee nell’invenzione dell’apparato diviso tra violenti bluastri e gialli procaci. O, a “New-York a piedi”, dove i passanti nerastri anonimi, anche qui alla Varlin, colti in movimento contro gli alti edifici abbozzati, registrano il quotidiano in una modalità del tutto indifferente. O i preziosi interni, che richiamano inevitabilmente Edward Hopper o tavolta David Hockney, intensi e intellettuali, “Salone rosso”, “Diva”, “I vicini fanno festa”, “Attesa”, dove domina il rosso pellicolare, con geometrie mentalizzate, sconcertanti o stranianti, e dove la figura - oggetto, fagocitata, mobile o soprammobile, indifferente legge, attende o ascolta o di schiena lavora, e dove non è il “che cosa”, ma il “come” Bordoni realizza il suo mondo in modalità dirette.

Se, dunque, Bordoni, nelle sue incursioni esterne - interne, rivela sempre la sua rara capacità fotografica di organizzare la realtà con una superlativa narratività e capacità tecnica, egli, nel versante dell’espressione artistica, manipola gli strumenti del suo mestiere con dotta e profonda conoscenza scientifica, usando, in ogni suo intervento, quella straordinaria capacità personale di interpretare i suoi soggetti con imprevedibile poliedrica invenzione, in particolare, con il mezzo del colore, che sa trasformare, in modo magico, tutto il suo mondo visivo. 

Lugano, 10.5.09
Ottorino Villatora -
Membro dell’AICA (Associazione Internazionale Critici d’Arte)