Bordoni Michele alla Galleria “SO-UN International Art“ di Zofingen - settembre 2007

“Un realismo magico“

L’artista, Michele Bordoni, già addetto ai lavori dal 1992, espone nei suggestivi spazi della Galleria SO-UN International Art di Zofingen, dall’8 sett. 2007, un corpus di 26 opere in acrilico su tela di medio e grande formato, che vanno dal 2003 al 2007.

Subito, sorprende e stupisce, in generale, la modalità pittorica di Bordoni, una modalità audace e diretta, nell’asfissiante narratività segnico-cromatica, anche nell’impianto realistico retinico-fotografico del soggetto, che egli coglie e descrive con disinvoltura disarmante, nelle sue divagazioni geografiche e nelle sue biografiche trascrizioni diaristiche, tra gli edifici alti e bassi della città, tra la folla del mercato e il groviglio del traffico, dialogando con il personaggio qualunque, ai margini della strada, osservando l’isolata nuotatrice sul materasso gonfiabile, la misteriosa signora dei gerani, la signora Colette patinata alla Laurencin, la signora Ruhlmann nel suo salone-guardaroba, o sostando, col chiaro di luna, sull’abbandonato nudo noldiano in rosso, all’angolo della stanza.

Ma, in particolare, ad una osservazione attenta e ravvicinata, si scopre che l’operazionalità di Bordoni è complessa ed originale, e nel suo percorso e nella sua definizione di pittura-pittura.
L’artista, coûte qui coûte, difende gelosamente il dato reale, come già Cézanne e chiama in causa, in più, la fotografia per meglio oggettivarlo. Ancora, egli non lo consegna alla variante registrazione ottica impressionistica, né alla visione metaforico-simbolista puntinista-divisionista, non lo decostruisce come i cubisti, né, con l’objet trouvé di Duchamp, lo sposta dal suo habitat con un procedimento semantico-linguistico ad effetto di straniamento (Sklovsky), né lo miticizza, né lo ingrandisce o diminuisce con le deviazioni di moda o i pretesi intellettualismi d’epoca, o con i continui nomadismi di reversibilità stilistiche.
Egli, imperterrito, dopo svariate sperimentazioni iniziali e attraverso la trafila di “scoperte”, comune ai giovani della sua generazione, costruisce il quadro nel suo impianto reale, innestando subito dei registri caratteristici formali di segno-colore, che lo trasformano, anche nei possibili citazionismi stilistici: il segno, che proviene dall’area tedesca, può variare, il segno, “duro”, secondo Grosz, “come un coltello”, o un segno grafico-decorativo, o un segno geroglifico immediato alla Kirchner, o un segno fitomorfo liberty, mentre il colore, che proviene dall’area francese fauvista, che, da Van Gogh, a Matisse, a Cézanne, a Seurat, passa, in particolare ad Albert Marquet (Cartelli a Trouville, 1906), senza i deliri di Vlaminck e Derain, con un cromatismo tipicamente e personalmente autonomo, coniugato con modalità moderne pop anglo-americane.
Il dato reale denotativo, referenziale e transitivo, diventa, sotto l’azione del colore-segno, connotativo e intransitivo, magicamente autoriflessivo, con l’eteronomia di un linguaggio mai metaforico, ma metonimico (la parte per il tutto e il tutto per la parte), trasformando, in primis, la fotografia bidimensionale in scena tridimensionale, come sistema e come meccanismo strutturale, spostando l’accento sempre sul significante. II segno ben presente, come già detto, delimita i campi di colore, descrive le architetture esterne-interne, anatomizza lo spazio e la direzione della composizione, frantuma l’intelaiatura della tela, o si esalta in divagazioni liberty, o si staticizza in decantati e musicali ritmi.
Il colore, in questo caso acrilico, crudo, asettico, pellicolare, spesso patinato, opacizzato e spesso materico, magicamente, inventa tutto, descrive tutto, assorbendo perfino lo stesso segno, diventando sempre il protagonista-regista del quadro e del suo impianto visivo.
Il colore, cioè il colore di Bordoni, che non è il colore puro o diviso, ma un colore complementare, tenuto ora a gradazioni basse, come l’ocra bruciato, il grigio spento, il nero fumo, il giallo verdastro e mai tonalizzato, ora in gradazioni alte, spaziando, sonante e dissodante, tra il rosso cupo o il blu marino, con effetto espressionista, o in larghe campiture patinate, mai lacerate. E il colore, nella sua immediata forza suggestiva, si mosaicizza bizantinicamente o si lamellizza modernamente, con estrema libertà descrittiva o analitica, con continua ridda vibratoria, in un’incandescenza sintetica e concentrata, nella fermezza del possesso della cosa o della figura, perché il colore inventa e assorbe tutte le textures incisorie e scultoree, a volte balisticamente spezzato, a volte densamente pressato e senza respiro, senza pentimento e senza le definite classiche modulazioni, vicino spesso alle modalità oggettive e impersonali delle atmosfere magrittiane di David Hockney o di Edward Hopper.
A volte, Bordoni, quando allenta il ritmo convulso vibratorio e quando si sofferma, in particolare, negli interni, blocca gli oggetti in un silenzio severo, duramente conquistato, nella interrelazione peculiare di intensità, o quando, all’esterno, apre lo spazio alla strada, alla piazza, al cielo, come per addensare o fermare la frammentazione. Allora, nei muri lattei opalini distesi, nei mattoni rossastri opachi a T, egli lascia, anche antiesteticamente, la sua contagiosa partecipazione atemporale.

Come a comprova, secondo i quadri e le titolazioni:
i taxi, nelle loro sagome giallastre approssimative, ammassati sulla strada bluastra, esibiscono fanalini come rose, contro gli edifici cadenti; a Venezia, le gondole, in alto e appena visibili nei ritmi delle chiglie nere trinate, palpitano in un’acqua serpeggiante filata, iridescente, preziosamente e stilisticamente liberty; il sigaraio, a mezzo busto, nella sua carnalità soutiniana, posa come in una foto, sotto il berretto militare; la ragazza dei gerani diventa essa stessa geranio, nella presenza della sola testa reclinata, nell’analogia matissiana o laurenciniana; Gerusalemme, a volo d’uccello, serrata nella sua struttura architettonica, è perforata continuamente nelle sue immancabili finestre; la ragazza, in costume da bagno, sta aspettando, rassegnata, tra chiazze colorate e rossi mattoni a T; le nostrane botteghe Gabbani, sotto le tre arcate giallastre, tra la via Pessina e l’angolo di via Soave, mostrano pomposamente, nell’ampio spazio bluastro sottostante, le geometrie anatomiche dei loro prodotti; la stessa vicina Piazza Riforma, affollata in un giorno estivo, davanti al Federale o la pasticceria Vanini, viene riassunta e riassorbita dagli irregolari edifici, mentalmente colorati; il bassotto, come un padrone, sulla sedia raffinata, rossa fiammante, immerso o ovattato, nei piani forti e tenui delle pareti e delle suppellettili; après Macke, ammaestrato a Parigi tra il 1907-10, ritorna nella vaporosa macchia, davanti una boutique qualunque, con i passanti distratti e variopinti; il lustrascarpe, sotto la grande scritta “Paris”, accovacciato con la casacca verde bottiglia, berretto e calzoni rossi, aspetta il cliente che non viene, con le spazzole allineate per terra; le risaie, tra masse segmentate, biancastre-ocrate, tra segni divaganti neri-blu, sono assorbite nella figurazione fluttuante-astratta; il cammello rosso, cosi graficamente asettico, in un deserto assolato e alla briglia di un beduino, avanza verso un basso cielo blu arcuato e patinato, lasciando tracce nerastre-biancastre, tra i filameti paralleli delle ombre; l’anonimo angolo di lettura, staticamente assorbito dai libri e scaffali, con la poltrona rossa vuota a destra, diagonalmente percorso stranamente dalle pareti al soffitto da due strisce biancastre, che dinamizzano il silenzio ritmato; l’ultima partenza della ragazza, sorpresa e seduta fuori sulla valigia, tra la parete a T e una probabile porta, con la gonna corta rossastra e il cappello largo e il corpetto giallo e gli occhiali neri, abbandona la mano alla borsetta, che tocca l’ombra violacea del suo corpo approssimativo sul pavimento; a Mendrisio (via Nobili Rusca), il solido edificio rosso torreggia come un bastione alto sul cielo latteo-azzurro, nella sua severa architettura, avvolto da un arboreo fogliame e stretto in primo piano dall’entrata a gradini concentrici giallastri e dall’alto cancello terroso: la costruzione, magicamente evocatrice, si alza come un’immagine piena di presentimento e di mistero, dipinta come un dipinto e dipinta come un segno; anche il chiaro di luna musicale, con i ritmi della finestra socchiusa marrone-rosa, la sedia violacea con i libri, il portacenere con il sigaro acceso, il tavolino obliquo in una prospettiva sgemba con la tromba nerastra in piedi, il foglio bianco e la matita appuntita scura, il pavimento gelsomino, attendono da qualche parte e in sordina la carezza di note lunari. 

Bordoni, all’assalto del “come” e non del “che cosa”, verso dunque il significante autoriflessivo, con sincerità inaudita ‚ che gli vieta nostalgie di altre esplorazioni, frantuma immediatamente la realtà visiva in una caleidoscopica irrealtà, tattilmente sempre presente, anche nelle palpitazioni timbriche o allungate. E la stessa densità del “come” richiama una riflessione ravvicinata, per dare giustizia a questa pittura-pittura, personalmente gestita ed impegnata, al di là delle facili illustrazioni, che tiene conto di tutte le lezioni, per una scrittura aderente al funzionamento espressivo ed all’asserzione di una forma nuova e conturbante, perché l’arte consiste in una ricerca di equivalenti, piuttosto che in un particolare stile e che lo strumento vitale per trasformare il prosaico in poeticamente magico è l’immaginazione.

Lugano, 28.8.07
Ottorino Villatora 

 

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